
Ciao a tutti!
Dopo un bel classico oggi vorrei passare a qualcosa di contemporaneo. Chi di voi conosce Jonathan Coe?
Confesso che fino a qualche anno fa manco sapevo chi fosse.. Poi un mio amico mi ha consigliato un suo libro e da allora è stato amore a prima vista (o meglio, a prima lettura)! E’ uno scrittore inglese, nato nel 1961. Il suo punto di forza è il riuscire a mostrare spaccati della società, gli influssi politici, le problematiche di un determinato periodo in maniera molto realistica. Con i suoi libri riesce a far provare, anche a chi è nato dopo, cosa significasse vivere in un certo periodo.
Il libro di oggi è “La famiglia Winshaw” (1994). In Italia è pubblicato da Feltrinelli.
Sono molto legata a questo libro, perché mi ha fatto compagnia durante il mio periodo passato a Roma per uno stage (ma questa è un’altra storia): vivo in un paesino tranquillo in provincia di Milano, e ritrovarmi nel bel mezzo del casino del traffico romano è stato un trauma! Fiumi di macchine giorno e notte, per non parlare del pub con la musica a tutto volume. Mi ha tenuto compagnia soprattutto in quelle notti insonni! 🙂
Il protagonista è Michael Owen, un introverso e timido scrittore “fallito”, che spera di riscattarsi scrivendo la biografia di una importante famiglia, e al contempo indagare su alcuni fatti poco chiari che la riguardano. Le vicende di Michael e quelle della famiglia sembrano scorrere su binari paralleli, ma mano a mano che si va avanti nella storia, il lettore scopre che forse questi binari tanto paralleli non sono..
Non è un libro semplice da leggere: il protagonista fa spesso dei richiami al passato (sfruttando soprattutto l’ossessione per un film che ha visto da bambino), e quando si inizia a indagare nella famiglia Winshaw i personaggi in gioco sono tanti. Confesso anche che mi ha spaventato la presenza dell’albero genealogico dei Winshaw presente all’inizio del libro.
C’è anche da dire però che l’autore agevola il più possibile la lettura, dividendo il libro in due parti: una parte dedicata alla famiglia Winshaw e una parte ricreata come un romanzo dentro al romanzo (con tanto di capitoli e titoli di capitoli – azzeccatissimi), che rappresenta le ultime pagine, e che sono di fatto capitoli di azioni.
Inoltre ogni capitolo dedicato a un componente della famiglia inizia con un disegnino, molto ben fatto, del soggetto in questione. E’ raro trovare disegni in un libro per adulti, e l’ho apprezzato molto! Chi l’ha detto che non ci possono essere disegni nei libri per adulti? In questo caso poi accentuano la divisione dei capitoli, ricordano di chi si stia parlando, e forse suggeriscono anche un’interpretazione del personaggio, che verrà fuori, in maniera quasi allegorica, per rimarcare determinati aspetti.
Una volta metabolizzato lo stile del libro, la lettura scorre sempre più facile: gli intrecci, sempre più fitti, scorreranno veloci e i vari personaggi si alterneranno come ballerini di valzer su una pedana da ballo: leggeri e armoniosi.
E’ presente un richiamo a un grande della letteratura, ovvero Italo Calvino. Autore che adoro e al quale sono molto legata (ma anche questa è un’altra storia).
Calvino è considerato maestro indiscusso per quanto riguarda gli intrecci di storie, e il suo libro “Il castello dei destini incrociati” ne è la prova (magari ne parlerò in un’altra recensione).
Coe indubbiamente aveva l’ambizioso progetto di ricreare una treccia perfetta per la sua storia, ammettendo le preziose ispirazioni prese da Calvino. Ma quando stai per pensare male, quando stai per pensare a un peccato di presunzione, con un moto di fastidio, (“Ecco, ora Coe si paragona a Calvino”) inizia a venirti il dubbio che venga citato soprattutto per il destino del protagonista, che per molti versi si può paragonare a quello di Calvino..
In questo libro sono proprio i fatti a generare altri fatti, ma che a ben pensare esistevano già prima. Si fa fatica a comprendere l’esatto susseguirsi (ed è per questo che vorrei rileggermelo armata di carta e penna), è il risultato è paragonabile alle incisioni di Escher. 😀 Sarebbe interessante scoprire quanto tempo ci ha messo e in che modo riesca a intrecciare le storie, nascondendo così bene il bandolo della matassa!

Coe fornisce infine un ottimo esempio di finale breve, che avviene in poche pagine, ma che non lascia il lettore insoddisfatto, come spesso accade in finali ricchi di azioni e quindi veloci. Forse è ben riuscito proprio perché la storia è stata sviluppata quasi fino all’ultimo, un po’ come una lunghissima partita a scacchi, dove il lento spostarsi delle pedine porta all’unica mossa finale: una volta svelati i dettagli mancanti, la storia va chiusa, e Coe lo fa abilmente con l’unico finale accettabile. E con accettabile intendo un finale che il lettore non può intuire fino all’ultimo, che è credibile e che non lascia modo alla storia di risorgere dalle proprie ceneri.
In una recensione che vi allego a fine post si commenta il poco successo che ha avuto questo libro in Italia al momento dell’uscita. La teoria sostenuta è che il titolo “La famiglia Winshaw” sia poco accattivante. Nel mio corso per diventare editor mi è stato spiegato che spesso un libro non vende per colpa della copertina e del titolo (e difatti spesso non vengono scelti dall’autore ma da un team specializzato). Iil titolo originale è “What a carve up!”, in italiano riconducibile a “Che casino!”. Un titolo decisamente azzeccato, sia per il richiamo che l’autore fa a un’opera omonima, sia per l’inevitabile esclamazione che qualunque lettore si sorprende a fare almeno una volta leggendo questo libro! 🙂
Mi piacerebbe scoprire che tipo di riflessioni sono state fatte per scegliere il titolo dell’edizione italiana, e se all’autore piaccia. E poi, mi piacerebbe che questo libro avesse il successo che si merita.
Eccovi la recensione, presa da “L’indice” (una rivista molto bella):
recensione di Papuzzi, A., L’Indice 1995, n.11
recensione pubblicata per l’edizione del 1995
Per il “Times” è un libro “che fa rivivere la memoria di Charles Dickens, perché è tutto ciò che un romanzo dovrebbe essere: coraggioso, provocante, divertente, triste, e popolato da un bel gruppo di personaggi”. “What a Carve Up!”, titolo originale che significa a un dipresso “Che casino!”, è il dono d’un romanzo “spassoso, intricato, furibondo, commovente”, per il critico di “The Guardian”, mentre è una dichiarazione di impegno politico “con una sorta di furia raramente vista sulla nostra sfiancata scena domestica”, per il critico di “The Independent”. E sul “Daily Telegraph” si poteva leggere che la narrativa di Coe “è come un ‘patchwork’ di diverse forme, un ‘medium’ brillantemente seducente, per il suo sobrio messaggio”. Ai riconoscimenti della critica – non solo quelli qui citati – si sono aggiunte le cinquemila sterline vinte con il premio “The Mail on Sunday / John Llewellyn Rhys” e contratti di traduzione in almeno dieci paesi (tra cui Francia, Germania, Spagna, Svezia); ma questo giovane scrittore inglese, nato a Birmingham, trentaquattro anni, autore di altri tre romanzi e di due biografie cinematografiche dedicate a Humphrey Bogart e James Stewart, ha conosciuto anche un ragguardevole successo di pubblico, vedendo la sua creatura affermarsi nei primi posti dei ‘Top Ten’.
Insomma il romanzo di Coe ha sfondato. Ma in Italia no; tempestivamente edito nei “Canguri” di Feltrinelli, “La famiglia Winshaw” non ha avuto fortuna, nè‚ presso la critica nè‚ presso il pubblico. Uscito a maggio, fino a settembre ne hanno parlato, consigliandone la lettura, Paolo Bertinetti su “Linea d’Ombra”, Silvio Mizzi su “Cuore” e anche Alessandra Casella nella sua rubrica su “Oggi”. Per il resto, silenzio. Anche noi dobbiamo recitare il ‘mea culpa’, perché il romanzo è rimasto dimenticato sul mio tavolo, finché un giorno ho cominciato a leggerlo e non ho più smesso. La cosa singolare è che “La famiglia Winshaw”, ricchissimo di citazioni, sia cinematografiche – “What a Carve Up!” è il titolo di un vecchio film – , sia letterarie, è un agghiacciante e insieme esilarante ritratto di una famiglia thatcheriana, di banchieri, industriali, politici, galleristi, giornalisti, faccendieri, che si adatta perfettamente anche a un certo ceto italiano degli anni ottanta, tuttora arrembante, fra televisioni, finanziarie, giornali, partiti e chi più ne ha più ne metta. A prima vista, Coe possiede lo stesso gusto sferzante del paradosso che troviamo in Vonnegut, con la differenza che i paradossi fanno parte della normalità e della quotidianità: ridi, ridi, ma a ben pensarci quella che è in gioco è la nostra pelle. Non a caso la conclusione della storia sarà piuttosto malinconica.
Prima domanda: perché “La famiglia Winshaw” da noi è stato trascurato? Perché la recensione dell'”Economist”, pubblicata sul risvolto di copertina – che loda “la straordinaria abilità” nel fondere ‘detective story’ e horror gotico, farsa e satira – , non ha convinto i recensori e lettori italiani? In effetti “Che casino!” avrebbe incuriosito un po’ di più.
Ribadisco che è una lettura impegnativa, ma se siete lettori “forti”, amate le storie ricche, avvincenti e coinvolgenti correte a comprarlo!
Giovanna
Grazie, con questo post ho conosciuto un nuovo autore che andrò a leggere… Buona giornata.
Ciao!! Che bello, sono contenta! Fammi sapere poi se ti è piaciuto! 🙂
Ah che libro. Me lo gioco sempre quando devo consigliare un titolo un po’ più da intellettuale.. 🙂 Aspetto la recensione della casa del sonno, il mio preferito in assoluto di Coe. Baci!
Anche quello è in programma, così come “La banda dei brocchi”. Proprio oggi ne parlavo con una persona, a proposito di uno dei capitoli finali, quello che si presenta come un unico periodo, senza manco un punto: un ottimo esempio della sua bravura!