Edgar Keret – All’improvviso bussano alla porta

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Immagine presa da lafeltrinelli.it

Ciao a tutti!

Cosa ne pensate dei libri di racconti? Li comprate? Vi piacciono?

E’ risaputo che sia un genere che vende poco: agli scrittori esordienti si consiglia di non presentarsi mai con una raccolta di romanzi.

Indubbiamente è un tipo di lettura diverso, ma non per questo meno meritevole.

Ogni tanto qualche libro di racconto lo compro: credo sia una prova delle abilità dello scrittore. Infatti scrivere un racconto per certi versi è più difficile di scrivere un romanzo intero. Bisogna concentrare il tutto senza però togliere niente alla storia. E senza cadere nella ripetitività: ogni racconto deve avere una propria personalità.

Quando ho sentito parlare di Etgar Keret, scrittore israeliano (1967) sono stata ben felice di apprendere che ha scritto solo libri di racconti, oltre a sceneggiature. Il libro che ho scelto per oggi è “All’improvviso bussano alla porta” (2012), pubblicato in Italia da Feltrinelli.

Già dalla copertina si può intuire che saranno racconti che stravolgono le regole, che presenteranno situazioni e personaggi ben oltre il limite del paradosso.

Quando ho iniziato il libro, dopo proprio le prime pagine, ho avuto la stessa sensazione che si ha quando incontri qualcuno che sai di conoscere ma non ricordi chi sia.

Mi sembrava familiare, ma senza sapere perché. Dopo qualche racconto ho capito chi mi ricordasse..

..ovvero un autore che ho “conosciuto” alle scuole medie, proprio grazie a una sua raccolta di racconti: ne rimasi affascinata, proprio perché era qualcosa di sconosciuto e poco chiaro. A 19 anni ho rispolverato il libro, per stabilire che questo autore misterioso (che rivelo a fine post, magari qualcuno vuole indovinare) stava diventando uno dei miei scrittori preferiti. E’ senza dubbio un pioniere del suo genere, e scommetto che lo stesso Keret lo adori (e abbia preso ispirazione). 😀

Sia il mio autore misterioso che Keret sfruttano il racconto non tanto per raccontare una storia, ma per passare un messaggio. Un po’ come le favole che hanno sempre la morale. Qui c’è uno (o più) significati nascosti da trovare, e non sempre è facile. Alcuni non li ho capiti, altri ho dovuto rileggerli.

Devo dire che Keret rispetto al mio autore misterioso (sebbene si possa definire contemporaneo) ha dalla sua un linguaggio più “moderno” e non si preoccupa minimamente di poter turbare o scandalizzare il lettore. E’ quindi un tipo di lettura impegnativa, sebbene alcuni racconti durino due pagine appena. Per questo ho intenzione di leggermi tutti i suoi libri, ma ben intervallati.

Credo anche che questo tipo di racconti (che a pochissimi autori escono bene), cioè racconti pieni di segreti da scovare (e da capire), situazioni surreali, oniriche, allegoriche, per essere ben riusciti devono avere un “linguaggio” in linea: un modo di proporre la storia, di introdurla, di narrarla che abbia lo stesso effetto di una ciliegina sulla torta del Cappellaio Matto.

Non si può scrivere un racconto di questo genere usando i classici metodi di narrazione: un esempio, per me, di questa categoria è “Branchie” (Ammaniti) che racconta una storia folle ma scritta normale (dedicherò un post apposito). Così come non si può scrivere in modo assurdo una storia normale, come fa ad esempio Tabucchi con “Sostiene Pereira”, sebbene mi sia piaciuto  (anche per lui farò un post).

Keret ha ben capito che tutto deve essere fuori dagli schemi e dalle righe (e per questo sono convinta che abbia imparato da uno bravo – il mio autore misterioso). In questo modo il lettore si trova doppiamente spiazzato, ma se riesce a vedere oltre, allora state pur certi che alcune frasi, alcuni momenti, alcuni personaggi di Keret non vi lasceranno più (esattamente come ha fatto su di me il mio autore misterioso).

Che poi, a mio parere, è la “mission” di uno scrittore, volendo sfruttare i termini dell’economia, che sono tanto in voga. Non tanto vendere libri, ma rimanere in maniera indelebile nella mente di chi legge, anche solo per una frase, o un personaggio, o un gesto, un’azione. O almeno, è quello che penso io quando scrivo.

Keret è un po’ come la musica di Battiato: dietro a un suo album (Gommalacca, 1998) è riportata questa frase

“..sono suoni di superficie, di striscio.. Solo i cantanti e gli indovini li praticano, solo i fortunati li ascoltano”.

Immagine presa da stefanofiorucci.altervista.org
Immagine presa da stefanofiorucci.altervista.org

Penso la stessa cosa di Keret: libro che al primo impatto spiazza, ma con una lettura attenta, che scavalca le prime impressioni si possono ricevere grandi soddisfazioni.

Tuttavia è un libro che consiglio soprattutto a chi ama i racconti, a chi già compra libri di racconti e ama la brevità della narrazione, che in questo caso è inversamente proporzionale alle riflessioni che porta a fare.

Ben sapendo che alla fine della lettura ci sentiremo un po’ come gli imperatori romani: o pollice su, o pollice giu. Ma che Keret non sia per le mezze misure, lo fa ben capire dalle prime righe.

E voi, lo amate o lo odiate?

Vi lascio con una sua intervista, presa dal sito http://www.hounlibrointesta.it (e in fondo al post, nel mio p.s. trovate il nome dell’autore misterioso)

Giovanna

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Siamo a Tel Aviv: Marta Perego intervista Keret, chiacchierando di scrittura e scrittori, da Kakfa ad Amos Oz. E del suo nuovo libro che in Italia uscirà a settembre: «All’improvviso bussano alla porta» (Feltrinelli).

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Lo so, questa rubrica si chiama «Incontri ravvicinati del tipo scrittore famoso». Lo so, davvero. Però in questo caso, come già avevo fatto conJennifer Egan, voglio prendermi di nuovo la licenza di scommettere su un nome che io sono sicura (ma dico sicura sicura sicura) che tra tre mesi sarà sulla bocca di tutti.

Sto parlando di Etgar Keret, scrittore 45enne nato, cresciuto e pasciuto a Tel Aviv. Ha già pubblicato in Italia con e/o sette raccolte di racconti, in settembre pubblicherà la nuova, All’improvviso bussano alla porta per Feltrinelli.

I suoi racconti sono surreali, divertenti, spaccano la realtà andando oltre, prendendola un po’ in giro ma nello stesso tempo vivisezionandola. Perché l’ironia e l’assurdo, ci insegnano i grandi maestri come Pinter, Beckett ma anche Woody Allen, sono il miglior modo per catturare il presente. Soprattutto se stiamo parlando di uno dei paesi più complicati del mondo, Israele.

Etgar Keret è un simpatico, sorridente riccioluto, ha lavorato per la tv e il cinema. Non si dà nessun tono, né aria di grande bestellerista consumato anche se il suo Suddenly a Knock at the door è stato un grandissimo successo in patria e anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove la versione tradotta dal grande Nathan Englander, sta vendendo centinaia di migliaia di copie.

Io lo incontro nella sua amata Tel Aviv, in uno dei bar più trendy della città. Tra un sorso di caffè (nero, bollente e lunghissimo come a Londra) e una passeggiata mi racconta un po’ di cose , poco prima che sua moglie, l’attrice Shira Geffen arrivi per ritirarlo e trascinarlo alla sua lezione di pilates perché, mi rivela: «sono un po’ ingrassato negli ultimi anni, sarà stato a causa di mio figlio».

Qual è il tuo rapporto con la tua città, Tel Aviv?

Io ho un fortissimo legame con la mia città, molto più che con il mio paese. Tel Aviv è diversa rispetto al resto di Israele. È una città libera, cosmopolita, gay friendly, ha il mare, le spiagge, molto viva, dinamica. Gli arabi vivono con gli israeliani, non ci sono discriminazioni. Secondo me Tel Aviv è l’esempio di come dovrebbe essere tutto lo stato di Israele.

La cosa che più ami e la cosa che più odi di Tel Aviv.

Le cose che amo di più sono due: la spiaggia e il fatto che non abbia storia. In medio Oriente la storia è la causa principale dei conflitti. Quella che odio? Non saprei. In realtà nulla, è casa mia e a casa tua in fondo ami tutto, anche i difetti.

Perché hai iniziato a scrivere?

Ho iniziato a scrivere durante il servizio militare, in Israele siamo tutti obbligati a fare il servizio militare per tre anni. Io sono stato il peggior soldato della storia di Israele, credo. Ero sempre in ansia, avevo continuamente attacchi di panico. Poi ho letto Kafka è ho scoperto qualcuno ancora più arrabbiato di me, con ancora più problemi psicologici di me. Allora mi sono detto, perché non inizio a raccontare la mia rabbia? Perché non inizio a mettere sulla carta le mie ansie? E così ho iniziato a scrivere. Grazie a Kafka e grazie, purtroppo, al servizio militare…

In tutte le tue raccolte l’ironia gioca un ruolo fondamentale.

Io penso che l’ironia sia fondamentale per sopravvivere. Tutti abbiamo delle paure: la morte, la malattia, la paura di perdere i nostri cari. Le reazioni possono essere due: o si vive nel terrore, o si cerca di esorcizzare queste paure. Attraverso l’umorismo. Io ho scelto questa strada.

Perché la scelta della forma del racconto?

Perché io privilegio l’aspetto istintivo della scrittura. Il racconto è molto più istintivo di un romanzo. Quando incontri un amico per strada gli racconti una storia, non un romanzo! Io credo che raccontare storie sia antico quanto l’uomo. Dagli antichi sciamani che raccontavano storie nelle tribù. Poi le forme cambiano dal racconto orale si passa a quello scritto, dal libro alla tv e poi il cinema Ma l’essenza è sempre la stessa: raccontare emozioni, situazioni, pensieri in una storia che sia godibile e piacevole.

Un approccio molto diverso rispetto agli altri scrittori israeliani che conosciamo (e amiamo) in Italia (Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua).

Io amo questi scrittori, soprattutto Amos Oz, che credo sia uno dei massimi scrittori viventi al mondo. Ma i miei riferimenti sono altri, scrittori ebrei (per lo più yiddish) più che israeliani. Come Bashevis Singer, oppure Kafka. Io credo che quando decidi di fare lo scrittore le strade che puoi percorrere sono due: o decidi di fare il mentore, l’insegnante, l’educatore. Oppure l’amico. Essere quello che incontri in treno e che ti dice: sai, ho dei problemi con mio figlio… Per me non è stata una scelta. Mi viene così: io non mi sento più intelligente dei miei lettori. Mi sento un amico che vuole condividere, idee, emozioni, sorrisi.

Sembra anche che nei suoi libri non ci siano idee politiche sullo stato di Israele, cosa che invece troviamo negli autori che citavo prima.

Io mi vedo più come uno psicoterapeuta che come un consigliere politico. Israele è una società piena di paure. Per esempio noi viviamo costantemente sotto l’ombra del genocidio della seconda guerra mondiale, o dell’esilio che abbiamo vissuto per secoli. È un fardello storico che condiziona le nostre vite. E questo causa fenomeni di stress e aggressività. Io non ho paura a dirlo e a raccontare i meccanismi mentali che portano certe persone a comportarsi in un certo modo magari per vendicare la morte in un lager di un loro bisnonno. Sono più interessato a questi fenomeni che sono intimi, privati, mentali. Piuttosto che riflettere sui sistemi politici di cui non mi sento in grado di parlare.

Nella nuova raccolta di racconti uno dei temi fondamentali è la morte e la resurrezione. Come in uno dei racconti più divertenti,Cheesus Christ, dove un uomo viene pugnalato per aver comprato un panino senza formaggio.

Ci ho messo dieci anni a scrivere questo libro. Molte cose sono cambiate nella mia vita. Mi sono sposato, ho avuto un figlio, ho un mutuo, insegno all’Università. Insomma tutte cose che mai mi sarei sognato di fare quando ero giovane. Quando ero più giovane se qualcuno mi avesse detto: un giorno avrai un mutuo e un’assicurazione sulla vita sparati. Ora ho tutte queste cose e sono felice. È una specie di nuova vita: per questo ho inserito tutte queste resurrezioni. Come metafora del mio nuovo modo di vivere.

Altro tema importante è il rapporto tra reale, surreale e fiction…

La struttura del libro è quella un po’ di le Mille e una notte. Inizia con un uomo che deve raccontare una storia per sopravvivere e finisce con uno che deve raccontare una storia per salvare suo figlio. Io penso che l’immaginazione ci salvi. A volte la realtà è davvero troppo difficile. Raccontare storie io credo sia fondamentale per salvarci, soprattutto per salvare la nostra psiche e la nostra anima.

Un’ultima domanda, come vede il suo futuro Etgar Keret?

Guarda, non lo so. Io sono una persona che continua a stupirsi. Non solo dalle mie storie ma anche dalla mia vita. Quindi sto qui e aspetto di essere ancora una volta stupito. Poi, si vedrà.

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P.S. : lo scrittore misterioso è  Dino Buzzati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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