Jonathan Coe – Expo 58

Immagine presa da ibs.it
Immagine presa da ibs.it

Buon lunedì a tutti!

Oggi torno a parlare di Jonathan Coe, più precisamente del suo ultimo libro: “Expo 58”.

In Italia è stato pubblicato da Feltrinelli nel settembre del 2013.

L’anno scorso, di questi tempi, lavoravo per una libreria e non scorderò mai la felicità nel ricevere da un rappresentate della Feltrinelli gli opuscoli di anteprima per i librai.

Sono opuscoli dove c’è una piccola trama, una copertina definita “provvisoria” (che spesso è quella definitiva), le dimensioni del libro, il numero di pagine, una breve biografia dell’autore. Vengono anche riportati i “numeri” dello scrittore, ovvero le copie vendute, gli anni passati da un libro e l’altro: informazioni che aiutano il libraio a decidere quante copie ordinarne. Inoltre si possono ordinare una serie di accessori, come la sagoma di cartone a grandezza naturale dell’autore, l’espositore dedicato, i segnalibri pubblicitari.. Il libraio non si limita solo a sistemare i libri! 🙂

Comunque,  quegli opuscoli significavano una sola cosa: presto sarebbe uscito un nuovo libro di Coe.

Già mi immaginavo gli intrecci per i quali è famoso, personaggi fantastici, avventure coinvolgenti.

Ho passato l’estate a fantasticare su tutto ciò!

Il protagonista del libro è Thomas Foley, impiegato del Central Office of Information di Londra, che viene spedito a Bruxelles in occasione dell’Expo del 1958, per supervisionare un pub del padiglione inglese. Sarà, a sua insaputa, catapultato in missioni di spionaggio, e le sue avventure andranno di pari passo con quelle dell’Expo, e dei personaggi che ruotano attorno al pub.

La delusione è stata forte:

La spy story si prestava molto per creare un bell’intreccio tra i vari personaggi. Non mi aspettavo una spy story ma un pretesto per fare i suoi soliti “destini incrociati”. I personaggi vengono presentati senza un reale collegamento con la storia: si capisce subito che sono lì in attesa di fare la loro parte nella storia. Un po’ come se piovessero attori su un palco. Si intrecciano poco, in maniera forzata, e smascherano quasi subito le caratteristiche peculiari di ognuno, dando al lettore la sensazione si avere degli “stereotipi” (tipo “il cattivo”, la “finta svampita”).

Questa sensazione è confermata nel momento in cui Thomas conosce due spie segrete: le classiche macchiette. Ricordano i gemelli di “Alice nel paese delle meraviglie” (che sta diventando un pozzo senza fondo dal quale attingere per spiegarvi i miei pensieri): buffi, assurdi nei loro ruoli. Addirittura si completano le frasi a vicenda: davvero surreali!

Magari c’è un motivo dietro a questa caratterizzazione, io non ne ho visti.

Lo stesso passaggio da romanzo a storia di spionaggio avviene in maniera molto surreale: Thomas viene rapito, bendato, e poi narcotizzato, per risvegliarsi in una casa in mezzo al verde, senza nessuno che lo sorvegli, incrociando solo una cameriera. Un’atmosfera che ricorda quelle palle di vetro da scuotere.

Prima l’autore si prende la briga di dare al suo rapimento un senso di urgenza, pericolo, segretezza e poi lo lascia senza manco un custode? Il lettore è confuso.

L’altro protagonista, ovvero Anneke, hostess dell’Expo, gioca un ruolo chiave nella storia. Ma di lei non traspare quasi niente. Eppure, come prevedibile, instaurerà un rapporto sempre più intimo con Thomas. Anche lei sembra piovuta dal cielo sul palco, solo con una parte più lunga, un copione ancora più banale e prevedibile. Toccherà a lei portare avanti la storia fino ai giorni nostri, con uno stratagemma da risultare irritante da quanto è prevedibile: un po’ come l’unico sopravvissuto dopo una catastrofe aliena. Quanto è fastidioso un finale del genere??

Per tirare le fila dei suoi intrecci mal riusciti usa indizi disseminati nella storia: indizi che sono pochi, creati male e nascosti male. Se vedo un flash dalla finestra, in una giornata di sole, penso a un lampo di un temporale o a qualcos’altro, tipo un fotografo? Ecco, appunto.

Tra questi indizi ci sono anche oggetti, che vengono introdotti abbastanza bene, ma che fanno comunque percepire un coinvolgimento nella storia. Il lettore è propenso a credere a quello che legge, ma nutre una forma di scetticismo: alcuni capitoli si ha voglia di leggerli non per il piacere di andare avanti con la storia ma di scoprire se questo scetticismo sia giustificato o meno, rendendo il tutto ancora più distaccato e poco coinvolgente.

Tra la fine della storia (ambientata nel 1958) e l’arrivo ai giorni nostri c’è un salto di 55 anni che avviene in poche pagine attraverso una cronologia sterile e asettica, che riporta fatti e luoghi.

Noiosa da seguire. Mi è sembrato un modo veloce e poco impegnativo di saltare un bel po’ di anni da raccontare. Come se il lettore dovesse accontentarsi di risolvere un unico mistero lasciato in sospeso, facilmente intuibile per i motivi che ho riportato poco fa.

E se la storia di Thomas trova fine dopo 58 anni, in questo modo asettico, il momento clou della spy story si consuma in una manciata di secondi, il tempo di sgranocchiare un pacchetto di patatine, grazie agli stessi attori piovuti sul palco, ansiosi di dire la loro parte prima che se la possano dimenticare, per poi tornare dietro le quinte e cambiarsi.

Una parte degna di nota è lo scambio di lettere tra la moglie e Thomas: divertente, utile e ben fatta, così come le metafore sparse in tutto il libro: i pochi segni riconoscibili della bravura di Coe, che con questo libro mi ha davvero deluso.

Non mi è passata comunque la speranza che possa tornare presto un nuovo romanzo, con tutte le caratteristiche che l’hanno reso famoso e amato in tutto il mondo.

Vi lascio con un articolo dedicato, preso da linkiesta.it

Giovanna

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18/09/2013

Expo 58, la ricerca del tempo perduto di Jonathan Coe

Un romanzo intriso di nostalgia e ironia. Coe mette in mostra il tempo che se ne va, inesorabile

 
Il nuovo libro – Incontro con l’autore

Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi. Era il 1958. Un anno per molti versi straordinario, degno di un incipit di Charles Dickens: la Comunità Economica Europea è appena nata; sovietici e americani mandano in orbita i primi satelliti (il nome Sputnik vi dice niente?); Bertrand Russell lancia la sua campagna per il disarmo nucleare; la Svezia rischia di vincere i Mondiali di calcio (ma perde, 2 a 5, contro il Brasile di Pelé); nell’Italia del boom viene pubblicato, da Feltrinelli, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

E proprio presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,Linkiesta ha incontrato, insieme a una batteria di agguerrite giornaliste e blogger, un grande scrittore inglese che al 1958 ha dedicato un romanzo: Jonathan Coe. Nato nel 1961 in un sobborgo di Birmingham, Coe possiede quell’autoironia tutta britannica che gli ha permesso di scrivere bestseller pungenti come “La banda dei brocchi” o “I terribili segreti di Maxwell Sim”.

Coe è autore anche di saggi, e ama moltissimo la musica, ma è soprattutto un romanziere. E sulla letteratura ha le idee chiare. «Penso che ogni romanzo abbia una funzione morale o sociale. Una delle funzioni del buon romanzo è aiutare il lettore a pensare più liberamente, a immaginare più liberamente. Qualsiasi sia l’argomento del libro, leggerlo deve essere una specie di atto politico».

Questo tuttavia non significa che la narrativa di Coe sia monodimensionale. «Quando ero un giovane scrittore, un giornalista, avevo una visione molto semplicistica della relazione tra romanzo e società, e nei miei scritti ero poco paziente con i romanzi che non si occupavano dell’oggi, dei problemi del presente. Ora però capisco che ci sono molti modi diversi di scrivere del presente. Esistono temi connessi non solo alla natura umana ma all’economia e alla politica, che sono ricorrenti nella storia».

L’ultima fatica letteraria di Coe, edita in Italia da Feltrinelli, si intitola “Expo 58”. Il perché è presto detto: nel 1958 il Belgio ospitò, non lontano da Bruxelles, un’esposizione universale. Ora: che uno scrittore brillante come Coe abbia visto nel Belgio di fine anni ’50 uno scenario ideale per una spy comedy, non deve stupire. In fondo si tratta di un regno surreale per natura, notoriamente bersagliato dalle barzellette dei francesi (e dalle invasioni dei vicini in generale).

Quando poi si scopre che obiettivo dell’Expo 58 era nientemeno che generare “una genuina unione dell’umanità”, e che il nome del padiglione belga era “Belgique Joyeuse” (il “Belgio gaio”, nel libro), allora si capisce che ironizzare sull’argomento è come sparare ai pesci in un barile. Certo, la vis comica di Coe non è mai volgare. Conserva sempre una piacevole leggerezza che ben si sposa con la duplice natura del libro. «Il romanzo è ambientato nel 1958 ma contiene anche dei rimandi all’oggi. Tuttavia ho cercato di mantenere un tono delicato e lieve, non volevo spingere troppo con i paragoni».

Protagonista del romanzo è Thomas Foley. Un trentenne di bell’aspetto, sposato e con figlioletta, che si guadagna il pane scrivendo opuscoli informativi per conto del governo britannico. Un borghese piccolo piccolo, insomma, che Coe non esita a definire «ingenuo e stupido». I suoi superiori lo spediscono all’Expo 58 per supervisionare la gestione del Britannia, il finto pub in “autentico stile inglese” che correda il padiglione britannico. Ma tra una birra tiepida e un cartoccio unto di fish and chips, Thomas dovrà vedersela con spie idiote, funzionari incapaci e soprattutto affascinanti hostess belghe che nulla sanno del suo matrimonio in terra d’Albione.

Vero protagonista del romanzo, però, è l’Expo 58. A cominciare dall’Atomium, l’imponente costruzione a forma di cristallo di ferro realizzata proprio per l’esposizione, e a cui i belgi sono ancora oggi così legati da effigiarla pure nelle monete da due euro. È stato l’Atomium, peraltro, ad aver ispirato in Coe “Expo 58”.

L’Atomium, nel parco Heysel a Bruxelles

«È solo negli ultimi anni che mi sono iniziato a interessare di architettura. Si tratta di una disciplina che non ho mai studiato. Riconosco che mi è difficile scrivere un libro ispirato da un edificio piuttosto che dalla gente o da eventi sociali, ma di fronte all’Atomium ho avuto una risposta molto emotiva, il che è stato insolito per me. La prima cosa a cui ho pensato vedendolo è il tempo, che è il grande tema in tutti i miei libri. Si tratta, a mio parere, di un edificio realizzato per esprimere speranza nel futuro, ma che ora è parte del passato. Una duplice prospettiva, insomma: una costruzione che guarda avanti e allo stesso tempo riporta indietro, al 1958. È questo ad avermi commosso».

E come una macchina del tempo, “Expo 58” riesce a trasportare il lettore in un’epoca che oggi sembra essere lontana anni-luce. L’Europa in pieno sviluppo, che sogna di unificarsi dopo secoli di guerre. La fiducia nell’energia atomica. Il mito della prosperità senza fine («Gran parte del nostro popolo non è mai stata così bene» è la celebre frase del primo ministro inglese Harold Macmillan nel 1957).

E anche se la Guerra Fredda è sempre più gelida, all’Expo 58 i belgi tentano di esorcizzarla mettendo il padiglione statunitense e quello sovietico l’uno di fronte all’altro. «L’Expo 58 fu in parte una fiera commerciale, ma fu anche un evento molto idealistico – riconosce Coe – Difficile, oggi, fare un Expo che non sia molto più cinico di quello del ‘58, perché viviamo in un periodo meno innocente».

Leggendo “Expo 58” si ha la sensazione di tenere tra le mani un libro intriso di nostalgia. Di rimpianto per un’epoca in cui tutto era più semplice, genuino, spontaneo. Un’epoca in cui per fare felice una ragazza bastava portarla a ballare in birreria, e con gli amici ci si parlava di persona, e non attraverso Facebook. Il perbenismo abbondava (il rapporto di coppia tra il protagonista Thomas e la moglie casalinga ne è un esempio), ma non bastava ad avvelenare un’atmosfera di moderato edonismo. La gente non era ancora ossessionata dal salutismo (nel libro tutti bevono e fumano con grande entusiasmo, il cancro ai polmoni è meno temuto dei calli ai piedi), il consumismo delle masse si riduceva al sogno di possedere un’utilitaria o un televisore.

Non è così. Coe si diverte a divertire il lettore con gli stereotipi degli anni Cinquanta, ma il messaggio sembra chiaro. Il 1958, come il 1989 o il 2013, è un anno con le sue luci e le sue ombre. Se oggi i più anziani provano nostalgia per gli anni Cinquanta, non è perché quegli anni erano migliori, ma perché loro erano migliori: più giovani, più sani, più forti; i sogni dell’adolescenza non ancora fatti a pezzi dalla realtà, e l’intima convinzione di poter ancora cambiare il proprio destino senza eccessivi sforzi; l’albero delle possibilità che spiega tutti i suoi rami. Il passato inganna perché la memoria inganna. Proprio come l’Expo 58, dove si costruiscono edifici, e interi villaggi, finti. Da smontare quando non servono più.

«Inizio a diventare vecchio, e mi ci sono voluti molti anni per capire quant’è difficile la ricerca della propria identità, e quanto indietro nel tempo si debba andare. Noi non siamo mutati dalle sole circostanze, ma anche determinati dalla genetica, dalla natura della nostra infanzia, dai rapporti giovanili con i nostri genitori – spiega Coe – Ho iniziato a esplorare questi temi con il romanzo “La pioggia prima che cada”, e in questo libro, “Expo 58”, non ho fissato dei confini precisi. Non è come un dipinto delimitato da una cornice, i margini della storia sono abbastanza annebbiati. Nel romanzo si scopre qualcosa di più sulla madre di Thomas, alla fine si sa qualcosa anche sul futuro del suo matrimonio. Si tratta di piccoli spazi che sto lasciando a me stesso qualora volessi tornare a scrivere di questa storia, per esplorare con maggior dettaglio. O magari no, lo deciderò in futuro».

“Expo 58” ha un che di piacevolmente nebuloso anche per il suo essere una spy comedy. E in effetti gli anni Cinquanta furono segnati dalla fascinazione per una spia, James Bond, che sarebbe poi diventato l’emblema della britannicità. «Ho visto molti film di spionaggio, che hanno avuto più influenza dei romanzi di spie sulla stesura di “Expo 58”. Non ho voluto essere troppo realistico, il libro doveva riflettere il carattere illusorio degli edifici e dei padiglioni dell’Expo 58. Ho capito che si trattava di un’opportunità per essere giocoso, indulgere in qualche fantasia. Mi sono ispirato ai miei film di spionaggio preferiti, e in particolare quelli di Hitchcock».

Con una differenza: nei film di Hitchcock il cattivo era un criminale. In questo libro è il tempo. E purtroppo non lo si può arrestare.

 

http://www.linkiesta.it/expo-58

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2 risposte a "Jonathan Coe – Expo 58"

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